Nel mondo del lavoro, il salario minimo è la più bassa remunerazione, paga oraria, giornaliera o mensile che i datori di lavoro devono, per legge, corrispondere ai propri collaboratori. Questo strumento è stato introdotto per la prima volta nel 1894 in Nuova Zelanda e in seguito in molti Paesi del mondo.
Nel contesto europeo, l’erosione del grado di protezione dei livelli salariali, dovuta anche al calo del grado di copertura della contrattazione collettiva, sta generando una tendenza alla generalizzazione dell’istituto del salario minimo legale. Attualmente, su ventotto paesi dell’Unione europea, ventidue sono dotati di meccanismi per la determinazione legale dei minimi salariali. Da ultima la Germania, nel 2014, è entrata nel novero dei paesi che conoscono questo istituto, e anche l’Italia, soprattutto negli ultimi anni, sembra muoversi in questa direzione, anche se con diverse resistenze e perplessità.
L’istituto del salario minimo è tanto apprezzato quanto criticato: infatti, se da una parte contribuisce a eliminare una parte di povertà, aumentare il potere d’acquisto, ridurre le diseguaglianze sociali e costringere le aziende a essere più efficienti e attente, dall’altra viene criticato perché si pensa contribuisca ad aumentare la disoccupazione, sia dannoso per le aziende che non possono reggere quel costo del lavoro e contribuisca ad aumentare l’inflazione potenziale.
Su una questione si è quasi tutti d’accordo: il salario minimo non può essere una manovra slegata da altre, come il taglio del cuneo fiscale per lavoratori e imprese e la professionalizzazione dei collaboratori. Ora, intendiamoci, un dipendente generico, che non conosce assolutamente il lavoro, prima di percepire il salario minimo, dovrebbe essere quantomeno formato e avere le skills di base per poter svolgere con profitto la propria mansione. Per questo, Paesi come la Germania, prevedono un periodo di formazione, o di prova, prima di accedere alla disciplina del salario minimo.
In Italia il dibattito sul salario minimo è iniziato nel 2014, con la presentazione del jobs act, anche se la parte sul salario minimo è rimasta esclusa dai decreti attuativi, e prevedeva un compenso minimo ai lavoratori non tutelati dai CCNL. Infatti, il sistema di contrattazione collettiva individua già delle soglie minime di retribuzione derivanti dalla contrattazione diretta tra imprenditori e sindacati, sicuramente parti più informate sul tema.
Negli ultimi anni, soprattutto grazie a delle spinte politiche sempre più insistenti, il tema del salario minimo in Italia è tornato prepotentemente alla ribalta, tanto da essere stato tema di scontro durante l’ultima crisi di Governo. In Italia, comunque, questo istituto adempirebbe solo al concetto della retribuzione sufficiente e delegherebbe comunque ancora ai sindacati e alle associazioni di categoria, attraverso i CCNL, l’individuazione dei criteri di proporzionalità nel rispetto non solo della quantità di lavoro ma anche della qualità.
Come abbiamo accennato prima, il salario minimo non può essere scollegato da altre misure riguardanti il mondo del lavoro, come ad esempio il costo sostenibile di un collaboratore per l’impresa o la riduzione delle tasse anche per le attività, in modo che questo non possa generare inflazione.
Un altro argomento da sbrogliare è quello che riguarda la preparazione e la professionalità del futuro collaboratore. Infatti, come avviene in molti Paesi, il periodo di prova e di formazione non è soggetto alle leggi sul salario minimo. In questo periodo, variabile ma comunque con una durata limitata nel tempo, un lavoratore può acquisire le skills necessarie per poter iniziare a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto.
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